GALILEO E LA VELOCITA’ DELLA LUCE
Fu Galileo nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze , pubblicati nel 1638 a porsi per primo il problema di misurare la velocità della luce.
Galileo immagina un esperimento nel quale due osservatori muniti di lanterne si dispongono su due colline distanti alcune miglia; il primo osservatore scoprirà la propria lanterna e misurerà la velocità della luce in base al tempo intercorso tra la partenza del segnale e il ritorno del segnale di risposta .
Sagr. Ma quale e quanta doviamo noi stimare che sia questa velocità del lume? forse instantanea, momentanea, o pur, come gli altri movimenti, temporanea? né potremo con esperienza assicurarci qual ella sia?
Simp. Mostra l’esperienza quotidiana, l’espansion del lume esser instantanea; mentre che vedendo in gran lontananza sparar un’artiglieria, lo splendor della fiamma senza interposizion di tempo si conduce a gli occhi nostri, ma non già il suono all’orecchie, se non dopo notabile intervallo di tempo.
Sagr. Eh, Sig. Simplicio, da cotesta notissima esperienza non si raccoglie altro se non che il suono si conduce al nostro udito in tempo men breve di quello che si conduca il lume; ma non mi assicura, se la venuta del lume sia per ciò istantanea, più che temporanea ma velocissima. Né simile osservazione conclude più che l’altra di chi dice: «Subito giunto il Sole all’orizonte, arriva il suo splendore a gli occhi nostri»; imperò che chi mi assicura che prima non giugnessero i suoi raggi al detto termine, che alla nostra vista?
Salv. La poca concludenza di queste e di altre simili osservazioni mi fece una volta pensare a qualche modo di poterci senza errore accertar, se l’illuminazione, cioè se l’espansion del lume, fusse veramente instantanea; poiché il moto assai veloce del suono ci assicura, quella della luce non poter esser se non velocissima: e l’esperienza che mi sovvenne, fu tale. Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l’interposizion della mano, alla vista del compagno, e che, ponendosi l’uno incontro all’altro in distanza di poche braccia, vadano addestrandosi nello scoprire ed occultare il lor lume alla vista del compagno, sì che quando l’uno vede il lume dell’altro, immediatamente scuopra il suo; la qual corrispondenza, dopo alcune risposte fattesi scambievolmente, verrà loro talmente aggiustata, che, senza sensibile svario, alla scoperta dell’uno risponderà immediatamente la scoperta dell’altro, sì che quando l’uno scuopre il suo lume, vedrà nell’istesso tempo comparire alla sua vista il lume dell’altro. Aggiustata cotal pratica in questa piccolissima distanza, pongansi i due medesimi compagni con due simili lumi in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l’istessa esperienza, vadano osservando attentamente se le risposte delle loro scoperte ed occultazioni seguono secondo l’istesso tenore che facevano da vicino; che seguendo, si potrà assai sicuramente concludere, l’espansion del lume essere instantanea: ché quando ella ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia, che importano sei per l’andata d’un lume e venuta dell’altro, la dimora dovrebbe esser assai osservabile. E quando si volesse far tal osservazione in distanze maggiori, cioè di otto o dieci miglia, potremmo servirci del telescopio, aggiustandone un per uno gli osservatori al luogo dove la notte si hanno a mettere in pratica i lumi; li quali, ancor che non molto grandi, e per ciò invisibili in tanta lontananza all’occhio libero, ma ben facili a coprirsi e scoprirsi, con l’aiuto de i telescopii già aggiustati e fermati potranno esser commodamente veduti.
Sagr. L’esperienza mi pare d’invenzione non men sicura che ingegnosa. Ma diteci quello che nel praticarla avete concluso.
Salv. Veramente non l’ho sperimentata, salvo che in lontananza piccola, cioè manco d’un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia instantanea; ma ben, se non instantanea, velocissima, e direi momentanea, è ella, e per ora l’assimiglierei a quel moto che veggiamo farsi dallo splendore del baleno veduto tra le nugole lontane otto o dieci miglia; del qual lume distinguiamo il principio, e dirò il capo e fonte, in un luogo particolare tra esse nugole, ma bene immediatamente segue la sua espansione amplissima per le altre circostanti; che mi pare argomento, quella farsi con qualche poco di tempo; perché quando l’illuminazione fusse fatta tutta insieme, e non per parti, non par che si potesse distinguer la sua origine, e dirò il suo centro, dalle sue falde e dilatazioni estreme. (Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze)
Naturalmente, l’esperimento non poteva dare risultati apprezzabili, a causa della enorme sproporzione esistente tra i tempi di propagazione della luce e i tempi di reazione degli osservatori.
Ma quello che ci interessa notare è che l’importanza dell’esperimento è soprattutto di natura concettuale. Pensare di misurare la velocità di propagazione, significa abbandonare un modello “statico” a favore di un modello “dinamico”; significa cominciare a pensare che la luce non sia uno “stato” ( c’è luce!) ma un qualcosa che parte dagli oggetti illuminati e raggiunge i nostri occhi, impiegando un tempo finito.
Questo passaggio concettuale merita di essere sottolineato adeguatamente, prima ancora di passare ad illustrare le soluzioni sperimentali che Roemer, Fizeau e Foucault hanno dato successivamente al problema posto da Galileo.
Mario Guidone, nel suo articolo “Quando la velocità della luce divenne finita“, pubblicato sulla Rivista “Il Montani” nel settembre 1991, mostra come interrogarsi sulla finitezza o meno della velocità della luce, cominci ad avere senso con il passaggio da un modello emissivo della visione (in cui l’occhio emette raggi visuali, che vanno a “tastare” istantaneamente gli oggetti con lo sguardo) ad un modello ricettivo (in cui la visione degli occhi viene eccitata dalle copie che i corpi emettono di se stessi).
Non ha molto senso interrogarsi sulla finitezza o meno della velocità della luce, quando non sia operante la distinzione tra gli aspetti soggettivi, psicofisiologici, e gli aspetti fisici dei fenomeni luminosi.
Ai fini del nostro ragionamento, possiamo ricondurre il modello emissivo (Pitagora, Euclide) nell’ambito di una visione statica del fenomeno luminoso ed il modello ricettivo nell’ambito della visione dinamica.
Un ulteriore contributo sulla misurazione della velocità della luce è l’articolo di Alessandro Catà “La misura della velocità della luce” , pubblicato sulla rivista “Il Montani”, n. 1-2, 2004.